


Una conversazione brillante, mai greve (visto l’argomento e il periodo storico). Il giornalista e scrittore Fabrizio Loffi ha raccontato nella sede dell’Adafa la storia del film ‘Redenzione’, il film di Farinacci, un film ‘maledetto’, sparito quasi subito dai botteghini e bocciato perfino dal ministro della Cultura Alessandro Pavolini. L’evento si è aperto con il saluto del presidente dell’Adafa Fulvio Stumpo, che ha inquadrato il periodo storico in cui si muovono i protagonisti, e tracciato brevemente un ritratto di Roberto farinacci, il ras di Cremona “Che per tutta la vita ha cercato di prendere il posto i Mussolini, pur non avendo carisma e soprattutto non avendo la visione politica del duce”. La parola poi è passata a Loffi, che ha descritto la cinematografia italiana dell’epoca, e soprattutto quella cremonese, con i cinema allora operativi, come il Littorio, l’unica sala che diede la disponibilità alla prima del film, che la prima sera vide una folla immensa, in quelle successive quasi nessuno. Loffi ha raccontato le vicende che portarono al cast, con gli attori famosi e meno famosi, la costituzione di una società ad hoc e la cerimonia della consegna di una lira soltanto per la cessione dei diritti del suo dramma a Farinacci.
“Un film maledetto – ha spiegato Loffi- per una serie di motivi: innanzitutto perché ne è stata proibita la diffusione, la pubblicizzazione e la proiezione in quanto opera di propaganda fascista. In secondo luogo perché la sua uscita è stata funestata da una serie di contrattempi, disavventure dovuta all’inadeguatezza della produzione, gestita dalla Marfilm, fallita nel giro di pochi anni, al montaggio del tutto inadeguato realizzato a Cinecittà, alla scelta di distribuire il film in anteprima a Cremona, dove era stato girato e soprattutto alla temperie storica e politica che ne avrebbe sconsigliato la realizzazione alla vigilia della disfatta italiana in Russia, e alla conseguente caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Il film “Redenzione” fu un flop, e tanto più clamoroso in quanto vide coinvolto lo stesso autore del soggetto, Roberto Farinacci, che lo aveva adattato da un suo precedente lavoro teatrale del 1927, desideroso di riscatto dopo le parole pronunciate nel 1925 da Mussolini che, riferendosi a lui aveva detto che “non è la tessera che dà l’ingegno”. Un film realizzato dunque fuori tempo massimo, nella primavera del 1942, quando ormai risultava del tutto anacronistico il tentativo del fascismo, in crisi di identità, di rivolgere lo sguardo indietro alla ricerca della purezza nello squadrismo delle origini. In tempi recenti nuovi elementi emersi grazie alla rilettura del periodico “Oggi”, settimanale della Federazione cremonese del partito democratico del lavoro, due soli fogli diretti da Mario Mori, stampati dal 30 dicembre 1945 ad aprile 1946, hanno consentito di venire a conoscenza di particolari relativi alla produzione del tutto sconosciuti. Ad iniziare dal ruolo fondamentale rivestito da Lino Milanesi, l’aguzzino di Villa Merli capo dell’Ufficio Politico Investigativo, fucilato a Bergamo il 30 aprile 1945, direttore della produzione e vero ideatore del progetto, a cui collaborano gli artisti più graditi al regime: il regista Marcello Albani, in cerca di un riscatto dopo le prime deludenti prove alla macchina da presa; la moglie cremonese Maria Basaglia, direttrice del doppiaggio alla casa cinematografica Scalera e autrice della sceneggiatura sulla base del soggetto di Farinacci; Vera Carmi, la protagonista femminile in sostituzione della più nota Clara Calamai che avrebbe chiesto una cifra astronomica, Carlo Tamberlani, Mario Ferrari, Aroldo Tieri e molti altri. Ma si erano proposti per una piccola parte anche non pagata, lo stesso Amedeo Nazzari, Carlo Ninchi, Rossano Brazzi e Adriano Rimoldi, Paolo Stoppa, Carlo Minello, Giacomo Moschini. Nelle intenzioni del ministro della cultura popolare Alessandro Pavolini il film avrebbe dovuto completare la triade dei film fascisti con «Camicia nera» di Forzano e «Vecchia guardia» di Blasetti. Il 16 febbraio 1942 alle 16 iniziano le riprese al teatro Ponchielli che si concludono agli inizi di luglio, la produzione si trasferisce poi a Cinecittà per girare altri esterni. La prima proiezione si tiene a partire dalle 15 del 28 ottobre al cinema Littorio, l’unico che abbia accettato di programmare il film. La proiezione si rivela un fiasco, sia per un errore avvenuto probabilmente in fase di ripresa, dove alcune scene sono state girate con un passo accelerato causando un involontario effetto comico, sia perché il Ministero dello spettacolo ha tagliato proprio tutte quelle scene che facevano in qualche modo riferimento agli oppositori, come quella dell’incendio della cascina fatta costruire in riva al Po dall’architetto Sandro Marzano appiccato dai comunisti, per assistere alla quale i cremonesi si erano precipitati in massa sul set domenica 3 maggio, attirati dalle fiamme che divampavano in cielo. La quarta sera il film viene tolto dalla programmazione e da quel momento di Redenzione non ne parla più nessuno. Alcuni fotogrammi della pellicola, considerata prototipo del nuovo cinema fascista, fanno una fugace apparizione nel dicembre del 1942 alla Mostra della Rivoluzione fascista, allestita in un’ala della Galleria d’arte moderna di Villa Giulia a Roma. Si sa che nel febbraio 1943 è in programmazione a Torino, dove nel frattempo si è trasferita la Marfilm, con scarsi risultati di critica e pubblico. Ma la sfortuna per “Redenzione” non è ancora finita: il 26 luglio 1943 il “Supercinema” di Roma annuncia la “prima” del film di Marcello Albani, ma a causa di forza maggiore lo spettacolo viene rimandato a data da destinarsi. Il giorno prima vi è stata la drammatica riunione del Gran Consiglio che ha sancito la caduta di Mussolini.