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Il Po e i suoi porti tra, secche e piene

Nel dipinto di Felice Giuseppe Vertua Cremona vista dall’attracco piacentino

Grande (e giusta festa) per il nuovo attracco sul Po, adesso si aspettano i turisti, sperando che Cremona colga questa nuova opportunità di sviluppo: il fiume, anche se con la secca record di otto metri navigare diventa impossibile. Una storia sempre altalenante con la città, almeno da questo punto di vista, due situazioni limite, le secche o le piene, limitano le potenzialità del fiume, e impediscono lo sviluppo della navigazione, del turismo, della stessa fruizione ludica del Grande Fiume.

Eppure dall’VIII secolo fino alla fine del Cinquecento Cremona è una grande città fluviale, la sua Capitale, una via d’acqua che consente alle sue botteghe di portare cotoni, pannilani, lana, seta, stoviglie, vetri, perfino una sorta di garum fatto con i pesci del Po, in mezzo mondo, i suoi mercanti sono i protagonisti delle più rinomate fiere d’Europa, frequentano quelle famosissime di Francia, Montepellier, della Champagne, molti si sposeranno con donne francesi (sul modello di Bernadone, padre di Francesco d’Assisi). Cremona controlla porti a caput Adua, sull’Adda (affidati ai fedeli pizzighettonesi), in fluvio Ollio, sull’Oglio, persino sul fluvius Delma, sulla Delma, e, ovviamente sul Po. Un sistema idroviario che la mette in comunicazione con tutto il nord d’Italia, da Torino a Venezia, al mare Adriatico. Grazie al Po e ai suoi porti in città entrano fiumi di denaro (è proprio il caso di dirlo), anche se in questa sede non verranno analizzati i secoli di contenzioso con i vescovi per il diritto di riscuotere le tasse, i processi, i testimoni ultracentenari chiamati a difendere la curia, le violenze. Su questo sistema Cremona costruisce un piccolo impero fluviale, controlla il fiume e i territori da caput Adua al Vulpariolo (come si vedrà fino al Parmense) e oltre fino a Dosolo, Guastalla e Luzzara.

Di questo boom economico e di come era fatta la città sappiamo quasi tutto: chi erano i mercanti, i Barbò, gli Sfondrati, gli Amidani, gli Anguissola e tanti altri che in seguito acquisteranno anche titoli nobiliari; sappiamo dove erano i loro palazzi, posti sulla via Magistra, tra l’attuale corso Campi e via Palestro, come erano fatti, come ci vivevano, perfino come la pensavano. Grazie ad Antonio Campi conosciamo anche il più piccolo vicolino della città cinquecentesca. Ma la sua Carta si ferma alle mura e dunque non chiarisce una domanda: il porto, o i suoi porti dov’erano?

Una vicenda che si trascina da secoli: dov’era il Vulpariolo? il famoso porto di Cremona, citato in decine di carte medievali? Ebbene forse la domanda potrebbe essere mal posta, occorrerebbe dire: dov’erano il porto di Cremona e il Vulpariolo? perché molto probabilmente, se i documenti non ingannano, erano due cose ben distinte.

Il Vulpariolo

Di solito il porto Vulpariolo viene associato a Cremona, si è sempre pensato che il porto della città si chiamasse così (una via dalle parti del Porto-Canale lo ricorda). Ebbene se si valutano attentamente i documenti medievali ci si accorge che Vulpariolo è sempre associato a località come Brisivula, Tedeclus e Cucullo e non compare Cremona, e spessissimo dove compare il porto di Cremona, chiamato proprio così, «Portus Cremonae», non compare il Vulpariolo. In altri documenti addirittura si scrive «porto di Cremona e Vulpariolo». È chiaro che si tratta di due cose diverse.

Per capire dove fosse il Vulpariolo la chiave di tutto sono le tre località che lo accompagnano nella documentazione, di sicuro Cocullo è l’antica Pieve Ottoville, nel parmigiano, al di là del Po. Per cui è chiaro che non si sta parlando di Cremona. E dunque? Credo che il Vulpariolo fosse tra Pieve Ottoville e Isola Pescaroli. Alcuni storici lo danno a Isola Pescaroli, ma se un documento del 1698, dove si tratta di licenza di pesca, parla di diritti in sponda destra in località Volpadiolaè chiaro che non può essere solo a Isola Pescaroli, o meglio, solo nella frazione di San Daniele, ma anche a Pieve Ottoville. Questa porzione di sponda parmigiana, comunque era cremonese e i diritti sulla curtes di Cocullo erano appannaggio della città del Torrazzo.

Il porto di Cremona

A questo punto la vicenda si complica, perché il corso del fiume e la morfologia del terreno sono cambiati più volte nell’arco dei secoli. Osservando alcune mappe della città il posto più sicuro per un porto sarebbe tra porta Po e porta Mosa, luoghi probabilmente protetti anche da isole, sabbioni morte e mortizze. Un porto che si estendeva fino al Piacentino, anche questo territorio cremonese, famoso era il mercato di Olza: in altri termini tutto il fiume da Cremona a Castelvetro, Monticelli aveva attracchi e ormeggi. Impossibile immaginare uno scalo come lo intendiamo noi: non avrebbe resistito alle piene. I moli erano di legno, amovibili ed economici, pronti alla sostituzione. Decine di imbarcazioni sono attraccate ai moli, altre più leggere sono spiaggiate, altre ancora sono legate ai pali, di solito due paline di salice conficcate nella melma, una fa da attracco a prua, l’altra a poppa, un sistema d’attracco che tiene ferma la barca, come succede ancora oggi nelle lanche, dove l’acqua è quasi ferma. E se questo sistema era in vigore anche nella Cremona medievale, come confermano i documenti che ricordano che bisognava pagare una tassa sulla palificatura, vuol dire che la corrente era molto lenta se la barca poteva esser sostenuta dalle due paline, il porto dunque era molto largo e poteva permettersi il lusso di far attraccare decine di barche.

E non solo sulla riva di sinistra, come si diceva, ma anche su quella di destra. In almeno tre documenti si cita la località ultra Pado di Mezule altre volte di Menzania, ed è difficile non pensare a Mezzano Chitantolo, anche se alcuni storici la definiscano ancora località sconosciuta perché di mezzano, mezzani, isola mezzana, in effetti sull’asta del Po ce ne sono decine. Ma se è ultra Padum ed è di fronte a Cremona viene facile associarla a Mezzano, anche perché i possedimenti cremonesi nel Piacentino sono testimoniati da decine e decine di documenti medievali con i quali si stipulano contratti per terreni in Olza, San Nazzaro, alcuni venduti a Tinto Muso di Gatta, alla bocca del Po vecchio, a San Pietro. E a tal proposito anche i terreni cremonesi ultra Poxolum vengono posti in riva destra, ma quel Poxolum, fa venire in mente il Pozzolo, corso d’acqua che attraversa la Bassa fino a San Daniele e poi si getta nel Po a Isola Pescaroli, ma meglio non aprire altri dubbiosi capitoli.

Ai moli sono attraccate le nau piemontesi, che a poppa hanno una sorta di alloggio per l’equipaggio, le barbote pavesi sono spiaggiate, di solito hanno un carico leggero, a fianco ci sono le batelle, che arrivano dall’alessandrino. Ai moli sono assicurati i grandi mangani e i burchielli che arrivano da Milano e dalla laguna da dove arrivavano anche le antenate della comaccine, tipiche barche di Comacchio.

Forse c’era anche un doppio senso di marcia. Le barche che prendono la corrente e vanno verso valle navigano a sinistra, quella che risalgono costeggiano il piacentino alcune, le più pesanti venivano spinte dall’equipaggio, mozzi e peoti soprattutto, che con le cime attorno al petto trainavano la barca. Altre ancora erano trascinate dalla riva dai cavalli, sferzati da sottili staffili dai cavallanti, gli stessi che alla fine dell’800 sparano ai rimorchiatori a vapore che trascinano le barche, ben consapevoli che la loro epoca era finita. Molte imbarcazioni sono armate di una vela, il fiume era molto più largo di come lo si vede oggi, la corrente era più lenta, non era impossibile navigare a vela. Questa comunque era utilissima nella rotta di risalita, quando il vento, molto spesso, spirava dalla Bassa (un’espressione ancora usata sul Po).

Scesi dalle barche i marinai potevano anche anche giocare a zara, un’antica morra che faceva parte della baratteria, controllata dal Comune, ma solo in alcuni punti: a Sant’Agata e all’ingresso del ponte sul Po. I documenti infatti parlano anche di guadi e ponti. I primi non sono da escludere, ricordiamo che il Po era largo e in periodi di secca non era impossibile guadalo. Per quanto riguarda i ponti i documenti non chiariscono come fossero fatti, ma molto probabilmente erano ponti di barche e per attraversare guadi e ponti, ovviamente, si pagava una tassa. Un porto vivo, pulsante, con una massa di gente seminuda, in equilibrio sulle passerelle o con le gambe immerse nel fango centinaia di uomini scaricano le merci dai barconi, piegati sotto sacchi di sale, di grano, di brente di vino che caricano su carri trainati da buoi che stracolmi si dirigono verso la città. I paron delle barche urlano per trovare i posti migliori e imprecano contro le tasse (palificatura, teloneo, ripatico, sul trasporto) che devono pagare agli uomini della gabella, agli ormeggiatori del Comune, ai facchini, ai soldati di guardia chiamati guaytoni. E come se non bastasse alla fine devono pagare anche i pasti al personale del porto. Una questione molto controversa, che evidentemente sottintende a qualcos’altro: altrimenti quanto mangiavano questi uomini se ogni barca gli pagava un pasto?

Un porto dunque da Capitale del Po, il nuovo attracco avrà lo stesso effetto? Probabilmente no, di sicuro, però, è una nuova opportunità per Cremona.