





Presentata la Fondazione Francesco Arata, di via Arata 3, a Castelleone e venerdì Giancarlo Corada presenta i volumi: Il “Mitico’ Arata: un artista padano, Arata e Bagutta’ (contatti per appuntamenti: Helga Francesca Arata 3356700125 Fondazione Francesco Arata via Arata, 3 26012 Castelleone (CR) fondazionearata@gmail.com www.fondazionefrancescoarata.org.
Terminata dunque l’importante mostra de “i disegni”, la Fondazione Francesco Arata si è dedicata al recupero della casa natale e all’allestimento dei locali con gli arredi originali (per quanto possibile) ed una selezione qualificata di opere dell’artista. I locali sono gli stessi che occupava l’artista, nato nel 1890, fino al 1956, anno della morte, e sono rimasti alquanto integri: la famiglia ha conservato tutte le sue cose, che sono state riordinate. Inoltre sono stati ricomposti lo studio e la camera da letto. Negli altri locali sono esposti, suddivisi per temi, i quadri destinati a costituire la collezione permanente.
Nell’approfondimento della ricerca e la promozione dell’attività artistica del pittore, la Fondazione ha edito due volumetti che indagano aspetti dell’attività dell’artista. Il primo si intitola “il mitico Arata: un artista padano” e raccoglie gli articoli di stampa, oltre 200, sulla attività del pittore dal 1915 ad oggi. È interessante leggere il parere dei contemporanei, alcuni anch’essi pittori, sull’opera di Arata: pareri schietti, competenti, lontani da ogni fine adulatorio. Ne esce la figura di un artista singolare e senza ombre, tenacemente dedito alla sua arte: “mitico” lo definisce il giornalista e scrittore Paolo Monelli per la sua dedizione alla pittura, per l’assoluta fiducia (quasi religiosa) nell’arte; “pittore serissimo” lo definisce il critico Mario Monteverdi. È questa un’altra prova del suo valore, che resiste al tempo ed alle mode, e che nasce dalla felice unione di bravura tecnica, di acuto spirito auto-critico, di sensibilità verso il soggetto che dipinge (oggi diremmo empatia) e, soprattutto, della poesia che pervade i suoi dipinti. Certamente il rapporto di Arata con la pittura è stato sofferto, sempre dubbioso egli di avere dato il meglio di sé, col suo modo di dipingere en plein air che è anche gravoso impegno fisico. Molti scritti definiscono con sicurezza Arata come pittore padano, per via della terrosità dei suoi colori, per la costanza del confronto con la sua natura, per l’ostinata operosità senza proclami.
Il secondo volume si intitola “Arata e Bagutta” e indaga sulla frequentazione del nostro nel più originale cenacolo artistico-letterario della Milano tra le due guerre. Nella trattoria toscana di via Bagutta a Milano, dove si mangia bene con poche lire, a metà degli anni ’20 si riunisce un gruppo di giovani giornalisti, scrittori e critici d’arte, che via via coinvolgono i propri amici in serate goliardiche, nelle quali si inizia a discutere d’arte e si finisce con i canti alpini. Sono giovani talentuosi ed ambiziosi, slegati però dalla cultura ufficiale e indifferenti all’indirizzo culturale che il Fascismo cercava di imporre; al tempo sono sconosciuti (l’unico con una certa notorietà è il bolognese Riccardo Bacchelli) ma diventeranno tra i più importanti scrittori e giornalisti italiani: Orio Vergani, Paolo Monelli, Carlo Emilio Gadda, Dino Buzzati, Indro Montanelli. Ognuno dei sodali racconta le proprie esperienze e porta con sé gli amici (Ugo Ojetti, Giorgio De Chirico, Felice Casorati) in un fecondo scambio di idee che nel Ventennio è una rarità. Francesco Arata è lì, silenzioso attento, a fare “provvista di pensieri” come scrive Orio Vergani. Cosa si inventa questo gruppo di uomini intelligenti e anarchici? Un premio letterario indipendente dalle case editrici, e lo finanziano con la vendita delle opere offerte dal nutrito gruppo di artisti che con loro frequenta il cenacolo. Nasce così il più antico (esiste ancora) e indipendente premio letterario d’Italia. I pittori e scultori che offrono le loro opere diventeranno anch’essi famosi: Anselmo Bucci, Aldo Carpi, Carlo Carrà, Filippo De Pisis, Giuseppe Novello, Alberto Savinio, Arturo Tosi, Mario Vellani Marchi per citare i più noti.
Dall’introduzione del libro “il mitico Arata: un artista padano”: “Di seguito è raccolta in ordine cronologico una selezione degli oltre 200 articoli apparsi sulla stampa (quanti è stato possibile rintracciare) relativamente all’opera artistica di Francesco Arata. Da questi scritti, soprattutto degli autori che l’hanno conosciuto in vita, si ricava la descrizione di un artista singolare. Arata giunge tardi alla pittura, dopo esperienze di scenografo prima e architetto dopo: egli incrocia, nella sua formazione artistica, tutti i più importanti pittori, architetti e uomini di cultura che a quel tempo gravitano a Milano, allora il centro dell’arte italiana. Egli non segue alcuno dei movimenti artistici che attraversano i ferventi primi decenni del secolo: non li ignora ma, vivendoci dentro, prende da ognuno quel che più sente confacente alla sua indole. Dalla feconda iniziale attività di acquafortista, dalle prime opere dove accosta i colori puri alla maniera dei divisionisti, alla immobile fissità delle opere del “ritorno all’ordine” del “Novecento” di Margherita Sarfatti, alla luminosa esperienza della laguna veneta, ai grigi terrosi della campagna cremonese, alle impressioni sempre più chiare ed evanescenti della sua ultima attività, Arata cerca sempre di cogliere l’intima essenza, la poesia delle cose che ritrae. E non è un uomo che ignora come sta andando il mondo: tutte le testimonianze lo descrivono come un lettore forte: nella sua biblioteca ci sono le monografie coeve degli artisti che hanno o stanno cambiando l’arte: Cezanne, Matisse, Picasso, da lui lette, rilette ed annotate. Inoltre è un appassionato frequentatore dei maggiori musei europei, ed anche un fine psicologo, come si evidenzia nella sua capacità di “cogliere” la personalità delle persone che ritrae. Arata è uno spirito curioso, che, seppure con grande riserbo, cerca sempre la compagnia e non rifugge il confronto dei colleghi, sia nelle occasioni conviviali, sia nelle “stagioni” di attività pittorica lontano dal paese natale: riviera ligure, valli bergamasche, il lago d’Iseo, le colline veronesi, la laguna veneta, dove con i colleghi forma delle vere e proprie “colonie artistiche”. E parliamo di colleghi che diventeranno o sono già artisti di notorietà nazionale. Ma non è uomo da portare la giacca altrui: non è un caso che Arata non si sia mai intruppato in uno dei vari movimenti artistici dei primi decenni del secolo (cubismo, futurismo, metafisica, astrattismo, Novecento), che pure avevano sponsor nobili ed erano spesso coordinati con le gallerie d’arte, che imponevano una “linea” artistica foriera di maggiori vendite. Come mai allora Arata si fa coinvolgere nel circolo di Bagutta, allora la più originale confraternita culturale milanese? Perché Bagutta è un cenacolo di artisti irregolari, fuori dalla tradizione e dalle convenzioni (dall’establishment diremmo oggi), e Arata non può che esserne attratto. Questa allegra compagnia di uomini di cultura si inventa addirittura un premio letterario, indipendente da case editrici o da mecenati: un premio letterario che è votato dai pittori stessi (!) e finanziato con il dono delle proprie opere, vendute all’asta. Arata, personalità introversa e critica (specialmente con se stesso) ma senza sentimenti d’inferiorità, trova la compagnia di Bagutta assai stimolante, fuori dagli schemi: una fraternità di persone intellettualmente acute, dalle quali Arata si “abbevera”. Per le stesse ragioni, cioè vivere in una comunità di artisti in continuo confronto ed ispirazione, Arata comincia a frequentare l’isola di Burano, nella laguna veneta. Egli è già stato a dipingere a Venezia nei primi anni ’20: a quel tempo sull’isola di Burano andavano a dipingere ed a dimorare con pochi sghei i pittori veneti (i primi sono stati Pio Semeghini e Gino Rossi) i quali avevano finito per creare una vera e propria colonia artistica. Anche i pittori che frequentano Burano sono personalità indipendenti e lontane dallo schematismo delle mode, come i baguttiani, e cercano sull’isola un rapporto con la natura più autentico.
Il felice confronto che si instaura tra gli artisti lombardi e veneti, ospiti della vedova di Umberto Moggioli (anch’egli valente pittore e uno dei fondatori della scuola di Burano), ed il continuo confronto con la luce chiara e tersa della laguna, lo porta ad evolvere dalla cupa serietà delle opere degli anni Trenta all’esplosione di colore degli ultimi anni. Ma forse quella chiarista è stata comunque la naturale evoluzione dell’artista, come sembra di capire da una intervista del 1946. Certamente il rapporto di Arata con la pittura è stato sofferto, sempre dubbioso egli di avere dato il meglio di sé, col suo modo di dipingere en plein air che è anche gravoso impegno fisico. Molti scritti definiscono con sicurezza Arata come pittore padano. Sicuramente, per via della terrosità dei suoi colori, per la costanza del confronto con la sua natura, per l’ostinata operosità senza proclami: strano destino per un uomo di origini liguri. Infatti gli avi erano risaliti dalle valli della Riviera di Levante per commerciare nella pianura padana, pesce e vino probabilmente, prima a Piacenza (dove un ramo della famiglia generò il noto architetto Giulio Ulisse Arata), poi a Montodine, dove gestirono la locanda del Postiglione, ed infine a Castelleone, dove gli zii lavoravano nelle moderne (allora) filande e dove Francesco nacque. Ma Arata rimane un artista difficilmente classificabile, “serissimo” lo definisce Mario Monteverdi: di certo lontano dalle mondanità. Ci piace immaginare il pittore che scuote la testa di fronte ai critici ed ai galleristi che si affaccendano a catalogare e denominare nuovi movimenti artistici, quando per lui, uomo dotato di buon senso e con i piedi per terra, un padano insomma, la pittura è solo e null’altro che la rappresentazione della natura filtrata dalla personalità dell’artista. Ed è questa la ragione per cui Arata dipinge esclusivamente dal vero, di fronte al soggetto, nel freddo invernale o nel caldo estivo: non gli interessano le espressioni artistiche che fanno prevalere l’inconscio dell’autore sulla natura (come il coetaneo De Chirico per intendersi) e che quindi non hanno bisogno di un rapporto diretto con essa. Gli scritti documentano che Arata è un artista molto stimato, al quale si riconosce una solida preparazione pittorica. Ma è stato capito dai contemporanei? Forse no, ma erano tempi difficili, dove tra movimenti roboanti e l’invadenza del Regime non era facile portare avanti una pittura fedele alla realtà. Diciamo che la sua ostinata fedeltà al vero è stata compresa solo dopo la morte, quando è apparsa evidente l’originalità della sua arte: alcuni autori mettono in evidenza come Arata, indipendente da mode e correnti, rappresenti il felice mediatore tra vecchie forme d’arte e nuove tendenze moderne, un grande petit maître. Per queste ragioni, probabilmente, la fortuna critica di Arata è stata sempre sottotono: chissà quale sarebbe stata la fama di Arata se avesse seguito il gallerista Barbaroux a Parigi con Filippo De Pisis negli anni ‘20, o Orio Vergani e Indro Montanelli in giro per il mondo come fece Giuseppe Novello negli anni ’30. Invece, pur con una intensa attività lavorativa e importanti mostre in tutta l’Italia, egli non si allontana mai troppo dalla madre, l’unica rimasta del suo nucleo familiare, alla quale lo lega un affetto profondo e riconoscente. E soprattutto rimane solidamente ancorato alla sua terra natale, alla natura ed al paesaggio che ha assimilato da bambino e che gli fornisce continuamente nuovi stimoli. Per quanto poco comprensibile a noi che viviamo in una società globalizzata, la divisione tra città e campagna era allora, in una Italia prevalentemente agricola, un argomento molto dibattuto, basti pensare alle polemiche tra i due opposti fronti culturali di “strapaese” (Mino Maccari e Leo Longanesi) e “stracittà” (Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte). Arata è stato definito “mitico” dal giornalista e scrittore Paolo Monelli: per la sua dedizione alla pittura, per l’assoluta fiducia (quasi religiosa) nell’arte.
E Arata ha fatto della sua terra natale un luogo mitico. Anche lo scrittore castelleonese Virgilio Brocchi aveva reso il suo paese un mito universale, un posto dove tutti i lettori si identificano. Arata lo fa con la pittura: un luogo simile a centinaia di altri nella grande pianura padana diventa un archetipo, diventa “il paese” del cuore dove ognuno si riconosce. Quale eredità ci lascia l’artista? Arata testimonia la necessità del rapporto diretto con la natura, il consapevole e testardo confronto con il vero, unica e costante fonte di ispirazione dell’arte, e l’individualità creativa, l’indipendenza dell’artista da ogni movimento precostituito. Per la sua ritrosìa, Arata è un pittore che ha fatto scrivere più da morto che da vivo: notevoli i commenti che, negli oltre 60 anni dalla scomparsa, sono apparsi sulla stampa, ormai liberi dagli obblighi di celebrazione e tutti concordi nel ricordare con onestà l’opera dell’artista. È questa un’altra prova del suo valore, che resiste al tempo ed alle mode, e che nasce dalla felice unione di bravura tecnica, di acuto spirito auto-critico, di sensibilità verso il soggetto che dipinge (oggi diremmo empatia) e, soprattutto, della poesia che pervade i suoi dipinti. Arata è un pittore senza ombre: nella sua produzione non si trovano opere meno che decenti, tale è forte il senso critico verso sé stesso. I testi riportati sono scritti da critici d’arte tra i più validi del secolo, ma anche da giornalisti professionisti o da persone sinceramente appassionate: è la fotografia di come la cultura popolare, e non solo specialistica, si è rapportata con l’artista. Ogni testo porta un nuovo tassello, una personale visione o un commento all’opera di Arata” Dall’introduzione del prof. Giancarlo Corada al libro “Arata e Bagutta”: “Arata e Bagutta” è la storia di un gruppo di intellettuali (scrittori, pittori, scultori, giornalisti; anche qualche semplice e di solito ricco appassionato d’arte e di cultura) che, ad iniziativa soprattutto di Riccardo Bacchelli, Orio Vergani e Paolo Monelli, presero a riunirsi abbastanza stabilmente, a partire almeno dalla metà degli anni ’20 del ‘900, in una osteria toscana, in via Bagutta a Milano. Di questo gruppo fece parte Francesco Arata. Modesto, spesso silenzioso in una compagnia di ciarloni a volte un po’ “bauscia” (ma quando l’argomento lo interessava, interveniva, eccome!), ci ha lasciato dei vivacissimi appunti su amici e frequentatori dell’osteria. Il “Bagutta”, come presto si cominciò a dire, era sostanzialmente un cenacolo di amici (alcune donne anche, secondo le cronache del tempo abbastanza disinvolte) che si riuniva a tavola per parlare degli argomenti più diversi, di arte e letteratura soprattutto. Organizzò un Premio letterario e delle esposizioni di pittura. Il Premio letterario esiste ancora e nell’elenco dei vincitori figurano alcuni fra i migliori autori del Novecento italiano: Leonardo Sciascia, Primo Levi, Carlo Emilio Gadda, Aldo Palazzeschi, tanto per dire. E, tra i Giurati, anche Dino Buzzati, Indro Montanelli, Eugenio Montale. Alle esposizioni e, più in generale, alla vita del “Bagutta” parteciparono alcuni fra i più apprezzati artisti italiani: Michele Cascella, Raffaele De Grada, Messina, Savinio tra gli altri. Arata si trovava in ottima compagnia! Come si deduce dai nomi citati, il “Bagutta” non costituì una “corrente” (anche se diversi baguttiani, tra cui Ernesto Treccani, Aligi Sassu, Renato Guttuso, Emilio Vedova, fondarono nel 1938 la rivista “Corrente”, chiusa nel 1940 dalla Polizia perchè critica nei confronti del Regime e libera nelle discussioni).
Non fu, cioè, un “movimento” organico di pensiero e azione (tipo il Futurismo, per intenderci). Possiamo definirlo uno “spazio”, fisico ed ideale, entro cui si sviluppava un confronto e ci si divertiva, entro certi limiti, in momenti di cordiale convivialità. Sbaglia quindi, a mio avviso, chi usa il termine “baguttismo” per indicare un movimento tradizionalista, soprattutto in pittura, prosecutore della tradizione lombarda. Nel gruppo vi erano le posizioni più varie e comunque tutti, a partire da Arata, conoscevano quanto stava avvenendo nelle capitali culturali del momento: Parigi, ma anche Vienna, Berlino, Londra. Gli anni ’20 iniziano con lo sforzo di superare il dramma di una guerra mondiale e di una pandemia altrettanto mondiale (la cosiddetta “spagnola”, che fece più morti della guerra). E proseguono in tutta Europa destreggiandosi fra sforzi di emancipazione sociale ed individuale e deriva autoritaria (in Italia il Fascismo ed in Germania, più tardi, il Nazismo). Sono gli anni della meccanica quantistica che divide la comunità scientifica travolgendo la visione tradizionale della fisica. Sono gli anni del mito della velocità, dell’automobile e della radio; gli anni in cui gli abiti femminili si accorciano e la donna acquista libertà prima impensabili; gli anni in cui nasce un nuovo tipo di danza ed in cui sperimentare diventa la parola d’ordine. Qualcuno intravede anche i pericoli di tutto ciò: ad esempio, il regista Fritz Lang traduce in immagini, nel film “Metropolis”, un futuro distopico. Come ogni epoca, gli anni ’20 ed i primi anni ’30 sono anni complessi, ambigui, una medaglia con il dritto ed il rovescio. Scrive la storica dell’arte Petra Joos: “Quegli anni sono stati un’esplosione di creatività, liberazione erotica e femminismo, ma anche di trauma, di lotta e di economia selvaggia e spietata”. Le donne e gli uomini del Bagutta non ignoravano i fermenti in giro per il mondo e Milano viveva, seppure in tono minore, quel clima effervescente. Solo che ognuno cercava di declinare a proprio modo i vari movimenti europei. Poi, a poco a poco, nel corso degli anni ’30, man mano che il Regime si rafforzava ed induriva, gli spazi anche minimi di autonomia e di ricerca vennero a chiudersi. Dal 1936 al 1947 il Premio letterario venne sospeso ed anche sostanzialmente l’attività, proprio per evitare le ingerenze fasciste. Gli autori si ritirarono, allora sì, ciascuno nel proprio cantuccio e solo nel dopoguerra riprese il confronto. Ma Francesco Arata, per motivi familiari e di salute, rimase dopo la guerra quasi sempre a Castelleone, continuando però, come sempre aveva fatto, a vivere intensamente la pittura, la più grande passione della sua vita, fino al 3 marzo del 1956, giorno in cui cessò di vivere e lavorare. “Arata e Bagutta”, quindi, indaga non solo i rapporti del pittore castelleonese con l’ambiente milanese, ma il clima, l’atmosfera di un periodo importante della nostra storia. Ciò che sempre si dovrebbe fare quando si esamina il passato, si tratti di arte, di letteratura o altro.”